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mercoledì 19 marzo 2014

“Avevano spento anche la luna” : un meraviglioso inno alla vita


Immagine da web
Avevano spento anche la luna”, romanzo d’esordio di Ruta Sepetys pubblicato in Italia da Garzanti nel 2011 non è un libro che si dimentica facilmente. Suona strano definirlo romanzo, vista la crudezza dei fatti narrati e soprattutto il loro essere ispirati a vicende realmente accadute: Ruta Sepetys, scrittrice americana figlia di rifugiati lituani, per scrivere questo libro si è ispirata non solo alle vicende raccontate dal nonno, ma ha visitato i gulag sovietici in Siberia ed ha intervistato gli anziani sopravvissuti ai campi di lavoro di Stalin.

Su questo sfondo storico la Sepetys intesse la vicenda della protagonista, Lina, quindicenne lituana figlia di un rettore universitario che nel 1941 viene strappata insieme alla mamma e al fratellino alla propria casa per essere deportata, insieme a molti altri, nei campi di lavoro dell’Altaj in Siberia.

Già il fatto che la voce narrante sia quella di una ragazzina, una giovane promettente artista che testimonia con tenacia attraverso i propri disegni l’orrore che sta vivendo, dona se possibile leggerezza alla storia, che è narrata in modo estremamente scorrevole ed avvincente, nonostante la cupezza delle ambientazioni e delle scene. Agghiacciante la cattura all’ospedale della donna che ha appena partorito, ancora in camicia da notte, costretta a salire sul treno che riporta la scritta “Ladri e prostitute” insieme a Lina ed agli altri deportati. La stessa donna nel corso del viaggio sarà costretta a gettare giù dal treno in corsa il cadaverino del proprio bimbo, morto di stenti.

Lina riuscirà a sopravvivere alle atrocità dei campi di lavoro siberiani e persino a quelle dei campi di Trofimovsk sulle sponde del Mar Glaciale Artico grazie all’ enorme forza e dignità che la madre, Elena, cerca di trasmettere ai figli anche nei momenti più bui. Questa l’originalità del libro: riesce ad essere un inno alla vita, forse in certi modi paragonabile ad un film dello stampo di “La vita è Bella” di Roberto Benigni. Soprattutto attraverso il personaggio meravigliosamente delineato della madre di Lina, Elena, persona capace di insegnare ai figli a festeggiare il Natale persino in un campo di prigionia e ad amare il nemico senza giudicarlo, non piegando però mai la testa e senza rinunciare per nessun motivo alla propria dignità. Quando la polizia sovietica, durante la prigionia, offre ad Elena l’occasione di ricevere cibo ed un trattamento di favore per collaborare con loro come traduttrice, lei categoricamente rifiuta, anche se questo significa affamare i propri stessi figli. Ed è attraverso l’esempio della forza, speranza e tenacia della madre che Lina ed il fratellino sopravviveranno all’inferno.